Manifesto per la felicità. Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere
Stefano Bartolini, Donzelli Editore, Roma, Italia, 2010
Tra Stato e mercato, vince l’utopia del possibile
Piera Lombardi
Non so se ci avete mai fatto caso: nella vita come nei film o tv-movie, presto o tardi, spunta sempre un motel, o pensione, o alberghetto, o albergo, e nel motel-pensione-alberghetto-albergo dal comodino accanto al letto, spunta una Bibbia che lì alberga gratis. Il pensiero è sopraggiunto leggendo il Manifesto per la felicità, di Stefano Bartolini. La prima operazione di politica sociale, psicoterapia di gruppo, da farsi su scala mondiale, sarebbe collocare in ogni motel-pensione-alberghetto-albergo, compresi quelli dei set tv, questa vera e unica Bibbia dei nostri tempi, il “Manifesto” così da avviare lo spurgo di massa, cambiare pelle e interiora, perché se l’uomo nel viaggio della vita non cambia pelle e interiora che vive a fare? Per consumare, e basta, o consumare e intanto avversare i suoi simili.
Ecco, consumare, consumismo, bulimia dei consumi: parole chiave di un libro-manifesto per l’appunto, libro-investigazione senza compiacimenti astratti né sofismi teorici, libro-proposito e progetto, non libro-utopia e sogni d’oro, che ci dice chiaro e tondo chi siamo e dove andiamo. Siamo una pretesa di civiltà in stato di delirio avanzato, siamo in decomposizione economico-finanziaria, politico-istituzionale, sociale, ambientale, ecologica, etica, umana. Dove andiamo? Di questo passo, da nessuna parte, andiamo, neanche a spasso, o solo verso la tossicità tutto compreso, dai titoli finanziari ai titoli di coda, quelli tombali. Ma il libro composito, intrecciato, propone anche la cura o le cure, rimedi, terapie, soluzioni non fantascientifiche.
Si sente che l’autore, Stefano Bartolini, è un economista e ha una formazione rigorosa, ma sa essere un economista speciale, capace di impastare l’economia con un lievito efficace, così che non escono dall’impasto solo numeri e cifre, campioni statistici e citazioni di ricerche come ci si aspetta da severe pubblicazioni scientifiche. Dall’impasto emerge un’altra economia, non scienza triste, ma scienza che comincia a sorridere dopo aver smascherato la bugia del homo oeconomicus messa in circolazione dagli stessi economisti, e coscienza decisiva, determinante per la felicità di ciascuno e di un pianeta spolpato e stremato.
L’economia ci ha portato a questo punto, ma ora può salvarci perché “conta nel determinare la dimensione relazionale in cui gli individui vivono”, dimensione che può restituire, secondo l’autore, la salute psichica individuale e sociale, il ben-esseere. Senza le relazioni siamo reificati: l’altro diventa oggetto strumentale; l’avere ci ha tolto la vita relazionale, dunque la vita. Certo conta molto la cultura, come la pensiamo, come ci pensiamo, cosa pensiamo sia possibile socialmente e individualmente, ma la cultura è determinata dal sistema economico, “dunque è su questo che bisogna intervenire”. Altro che voli, esercitazioni psicologiche astratte, speculazioni filosofiche: partiamo dall’economia, dall’evidenza empirica, e ci troveremo nel cuore della nostra vita, al centro del malessere sociale e individuale che ci avvolge, dal bruciore di stomaco all’avversità indistinta verso tutto e tutti che basta un pretesto qualsiasi per prendere a pugni un passante fino alla morte, o al coma se va bene. Bartolini arriva ai bubboni del sistema con pregevoli doti di speleologo sociale e divulgatore che sale e scende con agilità le scale del punto di vista, dal particolare all’universale e viceversa.
Il libro è diviso in sei parti, ma solo per facilitare le cose al lettore. Si procede fluidi e spediti dalla descrizione della malattia epocale, all’indicazione delle cause, la prescrizione di terapie. Una parte è dedicata al caso americano, quindi alla crisi economica attuale, infine ci sono le buone notizie. Per la prima volta l’economia si occupa del benessere umano, misura la felicità, tasta il polso al malato, cerca antidoti. Non c’è alcuna nostalgia ruralista dei tempi andati nell’affermare che siamo sfatti e quasi marci, ma il bisogno di rappresentare il vistoso paradosso della felicità. Questa dell’Occidente è la società che per la prima volta nella storia umana, ha sconfitto la povertà di massa. La prosperità non è stata, non è diventata e non è, sinonimo di felicità. La promessa del capitalismo, emancipare l’individuo fino alla conquista del tempo, non è stata mai realizzato. Il tempo non è stato liberato, anzi. Più reddito, più benessere materiale, non equivalgono a più felicità. Il Pil non racconta le nostre nuove povertà, oltre quella economica o il reddito registrato in busta paga quando c’è. Siamo più poveri di tempo, spazio, relazioni, qualità di vita. Qualcosa non funziona, non ha funzionato. Il modello americano, compresa la famigerata crisi esplosa nel 2007, ci dice cosa non fare. “L’occidente ha sbagliato direzione”, gli Stati Uniti più di noi: vogliamo ancora scimmiottarli in tutto e per tutto o avviare una revisione dei nostri stili di vita? Un celebre pubblicitario , lo svizzero Frederic Beigbeder, citato nel Manifesto, afferma: “Sono un pubblicitario. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità perché la gente felice non consuma”………..